Taxi Driver

(Martin Scorsese)




di Niccolò Francisci*

 

Travis, un ex marine reduce dalla guerra del Vietnam, è un uomo solo, non istruito, ottuso, che soffre di insonnia. Nelle lunghe notti, passate a lavorare come tassista, vive con profonda frustrazione le inquietudini storiche del suo tempo, ma in modo diverso dagli altri: la solitudine, infatti, lo ha accompagnato per tutta la sua esistenza e come un cancro gli toglie ogni energia  vitale.

Osservato dal punto di vista del protagonista, il film è un’escalation di odio e di disprezzo profondo verso il pattume che infesta le strade di New York, simbolo di un’America violenta e spietata, in balia di politici inadatti nel fronteggiare i problemi reali del paese.

Travis non ha amici, non conosce nessuno, fuorché i colleghi tassisti con i quali si ritrova a prendere un caffè durante le pause di lavoro. È un incompreso, uno scarto della società, non riesce ad esprimersi ed è ossessionato dalla pornografia. La sua sensibilità acuta, profonda, e allo stesso tempo folle, lo porterà a conoscere l’unica persona disposta ad ascoltarlo e comprenderlo: una bambina di tredici anni che fa la prostituta. Travis, sconvolto e indignato da questa situazione, decide di liberare e salvare la sua unica amica uccidendo il suo pappone e i complici di quest’ultimo.

Le musiche sono assordanti, rasentano quasi la psichedelia e fanno perfettamente da cornice al film, enfatizzando e sottolineando i travagli interiori del protagonista.

Il regista, Martin Scorsese, è un attento e scrupoloso studioso dei particolari e si serve di essi per mettere in risalto il dramma, il dolore e il disagio sociale. Per questo i primi piani sullo sguardo di Travis sono cruciali: gli occhi che osservano, divorano, giudicano e disprezzano le strade di New York sono la chiave per capire e analizzare il film nella sua totalità e complessità.

 

*Iscritto al corso di recitazione base, anno accademico 2009-2010

 

 

04-12-09

 





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