CESARE LANZA E IL NEOREALISMO TELEVISIVO
I ragazzi di Studio 254, l’accademia romana di spettacolo e
comunicazione fondata dal
giornalista e autore tv, Cesare Lanza, hanno organizzato per questa
sera uno show di
fine anno che si terrà presso il Teatro Sala Umberto di via della
Mercede 50 a Roma:
gli allievi dell’accademia daranno prova di quanto appreso
nell’accademia di via Appia Nuova 254
di Maurizio Bonanni
I ragazzi di Studio 254, l’accademia romana di spettacolo e
comunicazione fondata dal giornalista e autore tv, Cesare Lanza,
hanno organizzato per questa sera uno show di fine anno che si terrà
presso il Teatro Sala Umberto di Via della Mercede 50 a Roma: gli
allievi dell’accademia daranno prova di quanto appreso
nell’accademia di via Appia Nuova 254. In una sorta di processo, due
parti contrapposte si batteranno su questo argomento, al centro di
infinite discussioni: il reality è un mostro trash o è la
rappresentazione aspra della nostra realtà? Il pubblico sarà quello
della televisione e del giornalismo. Sulle poltrone rosse del
centralissimo teatro della capitale, stavolta siederanno i
protagonisti della tv che hanno vinto gli ascolti della trascorsa
stagione televisiva. Ma cosa ne pensa Cesare Lanza di questo
fenomeno che ha invaso tutte le reti televisive del nostro paese? In
anteprima il noto giornalista e scrittore ci racconta il suo punto
di vista.
Se mi consenti definirei i “Reality” come una teoria del “prolasso
mentale”. Ovvero, lo spettatore accetta (spesso negandolo
pubblicamente) di assistere ad uno spettacolo noioso e ripetitivo,
perché gli consente di ridurre al minimo la sua attività cerebrale.
Il trionfo della pigrizia mentale e, forse, la tomba della cultura
in senso classico. Per te, un bene o un male?
La penso diversamente, ma è normale: io non sono né un critico né un
educatore. Sono un autore televisivo e come qualsiasi autore (anche
di film, opere teatrali, musica, ecc) mi pongo una domanda
prioritaria: lo spettacolo piacerà al pubblico o no? Penso perciò,
con il riscontro delle classifiche degli ascolti, che per molti
milioni di italiani il reality non sia né noioso né ripetitivo
(ovviamente, liberi i critici di pensare e scrivere diversamente).
Il semiotico Massimo Baldini vede i reality come “un marchese De
Sade per famiglia: sadismo in pillole unito al pietismo, alla
lacrima facile. Senza dimenticare l’elemento delle fiere paesane di
lusso, e la promiscuità ludica, anche quella sessuale”. Ma, forse,
lo stesso valeva in epoca classica, con gli spettacoli circensi del
Circo Massimo e del Colosseo. Il “Popolo” deve “pensare”, o no? Il
“prolasso” lo vuole il Grande Fratello orwelliano, ovvero deriva da
un enorme sentimento di auto castrazione di massa?
Ripeto, né un “prolasso” (anche se l’esemplificazione è suggestiva)
né un’autocastrazione di massa. Io ho rispetto prioritario per il
pubblico, della gente, a differenza di ciò che fanno i politici (ed
è grave) e i critici (che invece hanno diritto di stroncare e, a
volte, sono utili). Milioni di uomini e donne, pur avendo, con il
telecomando, un’immediata possibilità di rifiutare il reality, lo
scelgono e lo premiano. Sono le scelte del pubblico, che trasformano
la società e impongono nuovi indirizzi: che poi le scelte siano
elogiabili o no, è un argomento per me secondario. In caso
contrario, avrei scelto un altro mestiere: il missionario,
l’insegnante, il ricercatore scientifico. Il mio mestiere,
ricordiamolo, è quello di interessare, intrattenere, divertire,
coinvolgere.
Insomma, ha ragione il sociologo Mario Morcellini che sostiene come
il reality rappresenti il salvagente banale della crisi culturale
del piccolo schermo, che fa appello alla pancia degli ascoltatori,
per coprire la crisi di idee, abbassando i costi di produzione?
Pancia o no, non mi sembra che non ci sia affatto crisi di idee.
L’inventore del format del “Grande Fratello” è un genio, come
dimostra il successo del programma - che poi dipende dalla capacità
degli autori di realizzarlo più o meno bene - in tutto il mondo
occidentale. E un genio è anche, ad esempio, Maria de Filippi con la
realizzazione di “Uomini e Donne” e “Amici”. Il reality è
neorealismo televisivo, non inferiore, sociologicamente, al
neorealismo cinematografico. I ragazzi e le ragazze di Maria de
Filippi, i coatti e le squinzie del Grande Fratello sono gli
“sciuscià” di oggi, del neorealismo televisivo: simboli folgoranti,
metafore dell’epoca esattamente come i film di Rossellini e di De
Sica, aspra rappresentazione nient’affatto deformante di una realtà
che poi, nella vita, è ancora più violenta e rude di quanto non si
veda, televisivamente. Altro che pancia piena o vuota. Il problema
storico dei critici è, per molti, quello di non saper “riconoscere”
sul momento il valore e la qualità di ciò che debbono valutare:
dopo, è assai semplice. Il reality sarà rivalutato nei prossimi anni
e studiato e forse esaltato tra qualche lustro. Anche Rossellini e
de Sica e, in altra epoca, Fellini con “La Dolce Vita” furono
massacrati dai critici, all’uscita.
Quello che mi interessa è: dove può portare questa “riduzione” del
linguaggio (un fenomeno simile agli sms)? A quale grado di
involuzione ridurrà l’espressione dialettica, la capacità di
analisi, di critica e di sintesi? Le immagini non debbono, forse,
avere “anche” un carattere “catartico”, ovvero di purificazione dei
bassi istinti?
Come ho già spiegato, non mi pongo questo problema. Mi dispiace.
Spero che sia almeno apprezzata la mia sincerità. Quando mi occupo
di un programma, mi pongo quattro riferimenti. A mio parere non
possono essere di meno, ma neanche di più. Il primo è l’editore che
mi ha affidato l’incarico: mica sono andato a estorcerlo con il
mitra in mano! Perciò, debbo rispettare i termini dell’incarico, il
patto che abbiamo firmato. Il secondo riferimento è la gente, che
può spegnermi in qualsiasi momento: è sufficiente rifiutarmi e
passare su altri canali. Il pubblico ha potere di vita o di morte,
per chi lavora in televisione. Terzo riferimento: le leggi. Quarto
riferimento: la mia coscienza. Certo non scelgo o non decido tenendo
conto dei critici, non mi pongo la domanda “dove ci porterà tutto
questo?”. Rispondo alla mia coscienza e la mia coscienza è a posto.
Se poi mi viene chiesta un’opinione personale, rispondo: viviamo una
fase storica di decadenza sotto ogni punto di vista, ma la colpa non
è certo degli autori televisivi, che sono testimoni e traduttori
della realtà che li circonda!
Tuttavia, in particolari situazioni socio-politiche, i reality hanno
svolto un ruolo prezioso, veicolando messaggi proibiti o tabù, come
“Super Girl” in Cina, giudicato nel 2005 da Pechino troppo
democratico e “volgare”. Anche “Star Academy Lebanon”, con le sue
situazioni di convivenza tra uomini e donne, ha portato nei Paesi
musulmani una sorta di rivoluzione culturale. In fondo, non trovi
che la forza (o la debolezza) educativa del piccolo schermo stia
tutti nei suoi grandi numeri (rispetto al cinema)?
I Grandi Numeri sono, come ho detto, fondamentali. Tutti ne tengono
conto.
Gli spettatori dei reality tv votano per persone come loro, in
fondo. Non di rado, grasse, sgraziate, bruttine. Una diversa
accezione di “democrazia”? Ad esempio, l’americano Montel Williams
sostiene che i reality siano un ottimo veicolo per educare il
cittadino alla politica: basterebbe un buon numero di webcam, 24 h
su 24, per monitorare la giornata di un candidato alle
presidenziali. Un vantaggio, dunque, per la selezione delle elites
dal basso?
L’idea sarebbe eccellente. Ma irrealizzabile. Un politico non
accetterebbe mai di sottoporsi 24 ore su 24 alle telecamere. Ne
avrebbe paura. La realtà fa paura. È più facile rappresentarsi in
programmi comodi e accoglienti. Certo, un reality di questo tipo
sarebbe una rivoluzionaria “tribuna politica”.
Parliamo di Tv e cinema, ma ci dimentichiamo del terzo
incomodo: Internet ed il pc. Con loro, il reality è defunto da un
pezzo. Non pensi che, domani, la Rete sarà il più potente dei mezzi
espressivi?
Ho un’età che si avvicina alla settantina. Non vivrò il possibile, o
probabile, dominio di Internet. Ancora per qualche lustro la
televisione sarà assolutamente vincente. Non mi interessa ciò che
succederà dopo, ma mi fa piacere che i miei figli, come tutti i
giovani, siano bravi navigatori in rete. I giovani insomma non si
troveranno impreparati. Spero che un libro, un film, un programma
televisivo riescano a sopravvivere, questo sì. Ma forse è solo un
impulso sentimentale. Chi sono io per giudicare ciò che verrà?
L’OPINIONE, 16-06-09
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